Il processo è stato lungo. Ma alla fine il Parlamento Europeo si è impegnato a recepire la direttiva presentata dalla Commissione Europea sui salari minimi, dopo oltre un anno e mezzo di trattative. A inizio giugno il Coreper, il comitato dei rappresentanti permanenti che raccoglie tutti gli Stati membri, ha approvato la bozza di direttiva (con il voto contrario della Svezia e della Danimarca e l’astensione dell’Ungheria) ed ora la palla passa al Parlamento. Sul piatto, una questione resa ancor più urgente in seguito alla crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19, di cui hanno risentito in particolare quei settori produttivi in cui sono impiegati soprattutto lavoratori mediamente a basso salario (ad esempio il commercio al dettaglio e il turismo). In 21 Paesi dell’Unione Europea già esiste il salario minimo: manca in Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia, Svezia e Italia, dove i contratti collettivi del lavoro vengono usati come “sostituti” del salario minimo (anche se non coprono tutti i lavoratori).
Se il dibattito sul salario minimo in Europa è già sviluppato da diversi anni, in Italia ultimamente ha avuto molta risonanza. Nel nostro Paese, infatti, fra il 1990 e il 2020 il salario medio (a parità di potere d’acquisto) è diminuito del 2,9 per cento. E i cittadini quotidianamente devono far i conti con l’inflazione ed una situazione di incertezza. In quest’ottica, la direttiva europea ha l’intento di promuovere livelli adeguati delle retribuzioni dei lavoratori per ridurre il lavoro povero. In seguito alla votazione del Parlamento europeo, ci saranno due anni di tempo per applicarla.
Per i vari Paesi Ue che già ora dispongono per legge o per contrattazione collettiva di riferimenti salariali superiori al limite del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano (fissati dalla direttiva europea come confine del lavoro povero), in realtà non si prevede alcuna correzione legislativa. Nel contesto italiano, questi indici corrispondono ad un valore soglia di 7 euro/ora lordi (per Eurostat, il limite di “working poverty” è rappresentato dai 7,66 euro/ora). In pratica, la media dei salari italiani risulterebbe all’ultimo posto delle graduatorie europee. E, secondo le statistiche, oltre uno su dieci in Italia è definibile lavoratore povero. Tra le categorie meno pagate: le donne, i giovani sotto i 29 anni, gli stranieri, i lavoratori delle piccole imprese rispetto alle grandi. Inoltre, i rapporti di lavoro nel nostro Paese sono spesso influenzati da discontinuità e frammentarietà, forme di lavoro occasionale o non contrattualizzato, part-time involontari.
A fronte di questa situazione, cosa comporta la direttiva? Innanzitutto non intende imporre un trattamento minimo legale, rispetto al quale riconosce che l’obiettivo di garantire retribuzioni minime adeguate può essere raggiunto sia mediante la contrattazione collettiva sia per legge. In questo senso, rifacendosi ad uno dei principi del Pilastro europeo dei diritti sociali (il diritto a un salario dignitoso e alla contrattazione collettiva in tutti gli Stati membri), la direttiva punta a promuovere la contrattazione collettiva, chiedendo ai Paesi Ue di sostenerla nella determinazione dei salari, in particolare laddove tale contrattazione collettiva copra meno dell’80% dei lavoratori. Inoltre riconosce e promuove il ruolo dei sindacati in ogni passaggio, anche rispetto all’individuazione di livelli e criteri per un eventuale salario minimo, e prevede la clausola di “non regressione”, evitando che la direttiva stessa sia strumentalizzata per peggiorare le condizioni in alcuni Paesi.
Mentre in Italia il dibattito su questa tematica va ancora a rilento, restano dunque da affrontare le vere ragioni del lavoro povero. Una volta approvata, per ogni Paese la direttiva può costituire uno strumento utile per superare le rigidità del sistema. Provando a risolvere i nodi dell’estensione della contrattazione collettiva, oltre a stabilire controlli e sanzioni volte a combattere la precarietà e il lavoro povero: «Una tappa importante per l’Europa sociale», ha commentato la presidenza di turno francese dell’Ue. «Nel pieno rispetto delle diversità nazionali, il provvedimento favorirà dei salari minimi adeguati nell’Ue e lo sviluppo della contrattazione collettiva».