Diritto

Lo sfruttamento dei lavoratori migranti in Qatar

Come i Mondiali hanno tolto il velo sulla mancata tutela dei diritti fondamentali nell'Emirato

di Giappichelli / pubblicato 14 Dicembre 2022

“La morte è una parte del ciclo naturale della vita”. Con queste parole Nasser Al Khater, Ceo del Mondiale di Qatar 2022, si è sentito di commentare la tragica scomparsa di un uomo filippino avvenuta nei giorni scorsi, mentre lavorava in un resort utilizzato come centro di allenamento della nazionale saudita. Alex, questo il suo nome, è solo l’ultimo di una lunga serie di persone a cui è toccato lo stesso destino. Da quando nel dicembre 2010 il Qatar è stato selezionato dalla Fifa come Paese ospitante di questa edizione dei Mondiali, il tema delle morti bianche e dello sfruttamento è diventato sempre più di attualità. Da quel momento l’emirato ha portato avanti un programma di lavori edili senza precedenti, in larga parte destinati alla Coppa  del Mondo: oltre a nuovi stadi, sono stati costruiti o ammodernati aeroporti, strade e alberghi. 

I numeri

Finora il governo qatariota ha confermato ufficialmente solo qualche decina di vittime, ma la quasi certezza è che i numeri siano molto più alti. Un’inchiesta del Guardian, pubblicata nel 2021, parlava di circa 6500 morti, considerando solo quelli provenienti da Paesi che hanno fornito dati in loro possesso come India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka e Pakistan. I lavoratori con passaporto di altre nazioni come Filippine e Kenya non figurano in questo conteggio. Oltre ai dati ci sono ovviamente le storie degli uomini che hanno perso la vita. Storie di chi ha lasciato la propria casa per garantire a se stesso e ai propri cari una parvenza di futuro, e ha trovato paghe bassissime e in costante ritardo, case dormitorio sempre sovraffollate, arresti e rimpatri improvvisi.

Molti di loro hanno dovuto addirittura pagare per essere assunti. Secondo un report di Amnesty International, i lavoratori migranti hanno dovuto versare alle agenzie di collocamento nel loro Paese d’origine cifre che oscillano tra i 500 e i 4300 dollari, a fronte di stipendi che si aggirano tra i 150 e i 300 dollari al mese. Si tratta di una pratica che è espressamente vietata dal diritto qatariota, ma che resta tristemente diffusa nelle realtà dove la disoccupazione è un problema cronico. Un trattamento che, secondo alcune stime, è toccato a circa 1,7 milioni di persone, circa il 90% del totale della forza lavoro utilizzata. 

Il diritto del lavoro in Qatar

Il sistema dei migrant workers è regolato dalla legislazione qatariota, non certo all’avanguardia nella tutela dei diritti del lavoro. Come in diversi Paesi del Golfo, anche in Qatar viene utilizzato il  “kafala system”, un pacchetto normativo pensato appositamente per gli stranieri che si recano a lavorare in quella parte del mondo. Esso, tuttavia, presenta diversi elementi di criticità, principalmente a causa dell’eccessiva dipendenza che si viene a creare tra il lavoratore e il suo datore di lavoro. L’ingresso e la permanenza in Qatar sono infatti vincolati al possesso di un permesso di residenza che è gestito dal datore di lavoro: è quest’ultimo che lo richiede e lo rinnova, ma soprattutto che ha il potere di annullarlo in qualsiasi momento. E per un lavoratore trovato senza permesso di residenza le autorità qatariote fanno scattare l’arresto immediato.

Fino al 2020 inoltre, il kafala prevedeva che fosse il datore di lavoro a autorizzare il dipendente a cambiare impiego, e nonostante oggi questa pratica specifica non esista più, grazie all’impegno della diplomazia internazionale, per un lavoratore migrante cambiare lavoro è ancora molto complicato, tra tempi lunghissimi e ostacoli di varia natura. Non si tratta dell’unica riforma del mercato del lavoro occorsa negli ultimi tempi. Una di queste riguarda le forme di rappresentanza dei lavoratori. In Qatar sono infatti vietate le assemblee sindacali, anche se da qualche mese sono stati istituiti dei comitati interni tra dipendenti e dirigenti dove discutere  della gestione dell’azienda. Poco, troppo poco se si considera che tali incontri sono sotto il completo controllo del datore di lavoro, che ne stabilisce modi e tempi.

Insomma, le morti sono solo la drammatica punta di un iceberg fatto di sfruttamento e mancanza dei Diritti fondamentali che in Qatar ha radici profonde, e che l’organizzazione di un grande evento internazionale come i Mondiali di calcio sembra aver soltanto reso palese, senza riuscire a cambiare fino in fondo. 

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