Diritto

Decreto Rave Party, cosa prevede e quali sono i punti critici

Abbiamo analizzato il decreto da un punto di vista esclusivamente giuridico

di Giappichelli / pubblicato 28 Novembre 2022

Tra i primi provvedimenti adottati dal nuovo governo Meloni c’è l’ormai celebre “Decreto rave-party”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre 2022. In realtà la norma prende in considerazione vari altri temi, ma quello più “caldo”, su cui si sono focalizzate da subito polemiche e reazioni critiche da parte dell’opposizione politica, è la sezione relativa al contrasto ai raduni illegali comunemente definiti con il termine inglese “rave”. Dopo la prima approvazione e pubblicazione in Gazzetta il decreto è stato oggetto di un emendamento da parte del governo, proprio per rispondere alle critiche sollevate dalla prima formulazione della norma, come avremo modo di vedere in seguito.

Il decreto dunque si focalizza sul contrasto ai rave party, noti anche come “free party”, una tipologia di raduni musicali, entrati in voga a partire dagli Anni Ottanta, spesso di carattere clandestino. Vengono, infatti, organizzati all’ultimo momento, attraverso un passaparola fra i giovani partecipanti, senza autorizzazioni per l’utilizzo degli spazi (pubblici o privati) dove si svolgono.La norma approvata dal governo si propone di contrastare il verificarsi di queste situazioni, attraverso l’introduzione di uno specifico reato e di specifiche sanzioni che disincentivino l’organizzazione e la partecipazione ai rave. Vista l’attualità dell’argomento è opportuno entrare più nello specifico della norma, per comprendere la fondatezza delle critiche suscitate e individuarne gli effettivi punti di criticità.

Un reato contro l’ordine, l’incolumità e la salute pubblica

Cuore della norma è l’articolo 5 del decreto, con il quale si introduce un nuovo articolo nel codice penale (il 633-bis), istituendo specifiche pene e sanzioni per organizzatori e partecipanti ad azioni che comportino “l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Nel caso si verifichino tali condizioni la norma prevede per gli organizzatori pene che vanno dalla reclusione da 3 a 6 anni e una multa da 1000 a 10 mila euro. Secondo alcuni critici il nuovo articolo del codice rappresenta un inutile “doppione” del 633, che già vieta e punisce l’occupazione abusiva di luoghi pubblici e privati.

Bisogna però rilevare un’evidente e sostanziale differenza fra i due, in quanto l’articolo 633 istituisce un reato contro la proprietà, mentre il focus del 633-bis è il reato contro l’ordine, l’incolumità e la salute pubblica, rispetto al quale la magistratura deve procedere d’ufficio, mentre il reato contro la proprietà è procedibile solo a fronte di una querela di parte (fatte salve specifiche situazioni aggravate).

Pene e sanzioni troppo pesanti?

Altra fonte di polemiche sono le pene stabilite per questo genere di reato, che, secondo alcuni, risultano sproporzionate rispetto alla gravità, tanto da essere addirittura superiori a quelle in cui può incorrere chi si rende reo di aggressioni che comportino lesioni alla persona. Questo rilievo è corretto, ma bisogna sottolineare come la norma prevede tali pene e sanzioni solo per gli organizzatori dei raduni, mentre per i semplici partecipanti sono previste pene minori.

Una norma troppo vaga?

La genericità del decreto, nella forma in cui era stato originariamente pubblicato in gazzetta ufficiale, rappresentava uno dei suoi aspetti più critici, messo in evidenza da più parti. Effettivamente la norma così formulata non offriva nessun riferimento esplicito ai rave-party, che costituiscono il fenomeno emergenziale che ne dovrebbe giustificare l’entrata in vigore, riferendosi invece genericamente all’organizzazione di “manifestazioni”. Il timore era che tale vaghezza potesse aprire la strada a un utilizzo estensivo della norma, che andasse ben oltre le intenzioni del legislatore e portasse a una limitazione delle fondamentali libertà costituzionali, come il diritto dei cittadini di riunirsi per manifestare il proprio pensiero.

Proprio per questo motivo il governo ha poi ritenuto opportuno emendare il decreto, sostituendo l’originario articolo 434bis del codice penale con il 633bis, all’interno del quale compare chiaramente un riferimento esplicito e circoscritto ai raduni musicali o aventi altro scopo di intrattenimento, punibili in base al suddetto articolo solo nel caso in cui da questi eventi clandestinamente organizzati derivi “un concreto pericolo”.

Questioni di necessità e urgenza

Altro elemento critico è la modalità con cui la norma è entrata in vigore. Il governo ha deciso infatti di ricorrere al decreto legge invece che passare attraverso il normale iter legislativo parlamentare. L’articolo 77 della Costituzione prevede, infatti, il ricorso al decreto ministeriale, come atto normativo a carattere transitorio, solo in casi straordinari di necessità e urgenza, come possono esserlo ad esempio le calamità naturali, situazioni di emergenza sanitaria o gravi crisi economiche. Anche se la premessa all’articolo 5 del decreto parla di “straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno dei raduni dai quali possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica”, non è così conclamato che il fenomeno dei rave-party possa avere un tale profilo e la vaghezza della formulazione rende ancora più opinabile l’attribuzione dei requisiti di urgenza e necessità.

Questo significa che potrebbero esserci le condizioni perché qualcuno sottoponga la norma ad una valutazione di legittimità da parte della Corte Costituzionale, la quale, come già accaduto in precedenza, potrebbe rilevare il vizio procedurale nella sua entrata in vigore, dichiarando l’incostituzionalità di una o più delle sue parti. Il parere della Corte, anche se arrivasse dopo la conclusione dell’iter parlamentare di trasformazione del decreto in legge della Repubblica, avrebbe comunque effetto, portando alla cancellazione della legge.

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